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Un’avventura imprenditoriale marchigiana: l’Officina Macchini

maggio 15, 2019 - giornalismo
Un’avventura imprenditoriale marchigiana: l’Officina Macchini

E’ possibile entrare passando per una vietta dietro al porto.
In officina il meccanico di rado è solo. Ci sono sempre con lui uno o due aiutanti e poi un cliente, un amico, un turista che chiede informazioni per arrivare alla spiaggia, ma soprattutto conoscenti. Si scambiano due chiacchiere in amicizia, un saluto, tanto per fare sapere che ci sei, che stai bene e sei ancora in zona. L’officina Macchini è luogo d’incontro a Pesaro, località conosciuta tra le mete turistiche della regione Marche per la calma e la tranquillità dell’atmosfera, dei luoghi e degli eventi. Una cittadina, Pesaro, dove nessuno ti disturba, dove le musiche rombanti e i tunz tunz delle discoteche della Riviera Romagnola sono un eco lontana, perchè qui si balla il liscio, e le vacanze sono sinonimo di riposo.
Giorgio è al lavoro. Alto all’incirca 1 metro e 85, capelli bianchi, si mette con naturalezza in posa neo realista e punta dritti gli occhi verso l’obbiettivo mentre scatto, con le mani ancora nerastre (anche se è appena andato a lavarsele). Poi torna indaffarato ai propri macchinari, sposta leve e gira valvole che emettono ruggiti aspri e luci aliene che si riflettono solo su superfici nere.
Amata fresa e stimato tornio, con loro è cresciuto da quando è entrato il primo giorno in quella stanza di oggetti tutti imperlati di grasso. Giorgio Diminici non è della famiglia Macchini, ma dal ’67 fa parte dell’azienda, non ne è più uscito e ora è l’affittuario.
Fu Nicola Macchini attorno al 1860 l’artista iniziatore appassionato di pendoleria e meccanica, proveniente dal paesino ora chiamato Belvedere Fogliense (ma che prima era Montelevecchie) che, assieme al fratello Giuseppe aprì il laboratorio di produzione artigianale di pezzi per aratri, erpici e riparazioni di macchine agricole utilizzate per preparare i grandi campi alla semina, oppure per la raccolta delle dorate spighe. Alberi, boccole, pulegge, qui venivano realizzati a mano i pezzi per le trebbiatrici e i battitori, altri strumenti per pettinare le fertili colline marchigiane.
Quella di orologiai fu una delle varie attività che li fece conoscere nel Centro e Sud Italia, grazie ad un lavoro di autopromozione tra i sindaci dei vari paesi. Gli orologi da torre venivano richiesti e commissionati direttamente dai primi cittadini. Le rondelle dentate quella volta si realizzavano a mano una per una, senza l’utilizzo della fresa. Ogni ora scattavano i perni che dovevano essere di fattura perfetta e gli orologi venivano caricati giornalmente alzando e spostando dei pesi. E’ possibile ammirare uno di questi esemplari conservato nella Torre Civica di Macerata Feltria. Ma c’è dell’altro, i fratelli Macchini erano anche abili armaioli, tanto che si narra che il bandito Grossi, una notte andò a svegliare Giuseppe per farsi riparare lo schioppo per andare a compiere chissà quale scorreria, speriamo non troppo tragica.
Nel 1912 l’officina si trasferì a Pesaro, in via del Vallato e due anni dopo trasferirono ancora l’attività in Via Paterni, dove risiede ora. A quel tempo produceva pezzi per un’officina più grande, la Molaroni, che riforniva l’esercito italiano di proiettili. Si occupava inoltre di motori Arona, li istallava, aggiustava, e ne cambiava i pezzi per i pescatori del porto che trafelati, di notte tornavano dal mare con i motori in avaria.
Fu nel 1940 che presagendo l’arrivo dei tedeschi, Augusto ed il fratello Emiliano, figli di Giuseppe, decisero di nascondere le macchine sotterrandole nelle campagne di Rio Salso, la loro zona d’origine, nell’interno delle Marche, vicino Urbino.
Dopodichè Bruno, figlio di Augusto, partì per la guerra come silurista nei sottomarini. Si guadagnò numerose medaglie e, quando la guerra sembrava finita con il proclama del Maresciallo Badoglio trasmesso alla radio, fu concessa loro una licenza premio a Merano.
La guerra non era finita, il proclama emesso alla radio era ambiguo e fu mal interpretato e portò l’esercito italiano allo sbando.
La nave su cui erano imbarcati fu silurata, Bruno fatto prigioniero e portato al campo di concentramento di Silandro. Le donne invece furono rimandate a casa. La moglie Olga aspettò a casa dodici giorni il ritorno del marito, dopodichè andò a Silandro lei stessa ad aiutarlo nella fuga, e questa è una storia a lieto fine, per fortuna.
Evasi Bruno e Olga tornarono in città, a Pesaro, ma dovettero andare a vivere tra gli sfollati a Novilara, paesino dell’interno pesarese, famosa tra gli archeologi e appassionati di storia per la necropoli e le stele picene, e qui, dopo qualche mese, fu dato alla luce Elio, il proprietario attuale dell’officina. Nell’attesa di tornare a casa, mentre l’Ottava Armata Britannica si guadagnava terreno sulla linea gotica e Pesaro veniva bombardata, Bruno tra gli sfollati a Novilara, offriva il proprio sostegno alla Municipalità riparando gratuitamente l’orologio del paese. Nel 1944 quando gli Alleati

avevano ormai guadagnato terreno tornarono nell’officina. Riportarono le macchine alla luce, e l’officina Macchini riaprì i battenti.
L’officina nel 1956 si divise tra i due fratelli Emiliano che costruiva i pezzi per le macchine che lavorano il legno e Augusto a cui è succeduto Bruno, che costruiva verricelli salpa-reti e piccole macchine per la lavorazione del vetro.
Bruno fino agli anni ’80 portò avanti l’officina del padre, finchè la diede in affitto a Giorgio, alla sua affabilità, che anno dopo anno riesce a mantenere una vivace atmosfera d’accoglienza che raramente è possibile incontrare e che, insieme alle altre caratteristiche storiche che vi ho appena raccontato, contraddistingue questa officina dalle altre, e ne fa un luogo speciale della tradizione imprenditoriale marchigiana.

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